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Paolo Bianco
I cervelli di Deviatkino

opo lunghe dis­cus­si­oni, Bernd e Moritz, i miei due soci d’affari, mi convinsero ad andare per un fine settimana a San Pietroburgo (allora ancora Lenin­grado).

Eravamo nel 1992, in piena Perestrojka e Moritz era con­vinto che in Russia ci fosse un futuro per il nostro business. Io a quel tempo lo ero un po’ meno.

Comunque sia, ci decidemmo per metà novembre. Bernd ed io partimmo un gio­vedì. Moritz, che era già stato a Leningrado in agosto, partì un paio di giorni prima per preparare il programma del nostro soggiorno.

Siamo volati con la SAS fino a Stoccolma con la coincidenza Aeroflot per Leningrado. Come prima cosa, Bernd dimenticò la sua sciarpa rossa di cashmere sull’aereo SAS. Così avevamo qualcosa da fare durante il cambio-volo.

Al Duty Free oltre alla sciarpa (che gli è costata quasi come un vestito di Armani nel resto dell’Europa) Bernd comprò una bottiglia di vodka. Decisione ridicola. Con questi soldi a Leningrado ne avrebbe potuto comprare un cartone. Io, per non essere da meno, comprai una stecca di Marlboro... che ad Amburgo avrebbe costato la metà.

Il volo dell’Aeroflot era pieno zeppo di scandinavi, a parte Bernd ed io. Le hostess erano quasi tutte non in divisa ma vestite con jeans, magliette ecc. Si riconoscevano solo perché servivano ininterrottamente vodka e ruskie brandy, anche durante decollo, periodi di turbolenza ed atterraggio. Tutti conosciamo il carattere schivo e riservato degli svedesi, magari anche solo dai film di Ingmar Bergman, ma quando toccano suolo straniero, soprattutto se Duty Free, si trasformano in chiassosi ed allegri compagni di viaggio. Bernd si è subito sentito a suo agio e brindava con loro a destra e a sinistra.

Solo un giovane passeggero, due file avanti a noi, sedeva calmo e silenzioso leggendo un giornale. Si distingueva dagli altri passeggeri per il suo aspetto decisamente arabo. Anche Bernd lo notò, mi diede una leggera gomitata sbiancando in volto. Gli dissi che il mio oroscopo, per quel giorno, non prevedeva dirottamenti aerei.

Non sapremo mai se il pilota vestiva una divisa, sappiamo però che atterrò sicuro sulla pista di Pulkovo 2, sotto un nevischio battente. Sul tetto dell’Aeroporto si leggeva ancora Ленингрaд (Leningrad). Un paio di giorni dopo troneggerà il nuovo (vecchio) nome Санкт-Петербург — Sankt Peterburg.

«Да, да, быстро, быстро, да, хорошо — da, da, bystro, bystro, da, khahrahsho — sì, sì avanti, sì tutto a posto.»

Gesticolando e parlando ad alta voce, un addetto alla sicurezza dell’aeroporto accompagnava il silenzioso giovane arabo verso un’uscita laterale, senza attraversare il regolare controllo passaporti.

Moritz aveva promesso di venire a riceverci all’aeroporto. Nessun Moritz ma un ometto dall’aspetto dimesso, infagottato in un giaccone nero che reggeva un pezzo di cartone con i nostri nomi. Andammo verso di lui che ci fece segno di seguirlo. “Inseguendo” l’autista vidi sul parcheggio il nostro amico arabo che comunicava con un giovane russo in linguaggio a gesti e dicevano, più o meno:

«Was everything good?»

«Yes the flight was OK, everything is OK. Let’s check the rest later on.»

OK, pensai, allora tutto normale, ma non ne parlai con Bernd che non aveva notato i due.

L’autista aprì il cofano di una Lada verde-sporco già piena di borse di plastica, stivali di gomma e serbatoio di riserva.

Riuscimmo ad infilarci pure le nostre borse e ci accomodammo all’interno. Io davanti e Bernd sulla panca posteriore.

L’aeroporto dista circa 20 km dal centro. Il percorso attraverso la periferia non è dei più entusiasmanti: grandi casermoni, poca luce, pochissima gente per la strada (anche a causa del tempo inclemente).

Bernd ripeteva a brevi intervalli il nome del nostro albergo al conducente, che regolarmente accennava un sì con un cenno del capo. Man mano che ci avvicinavamo al centro, lo scenario cambiava in modo positivo: palazzi magnifici, alcuni ancora allo “stato sovietico”, altri già in fase di restauro. Molti passanti che camminavano in tutte le direzioni lungo le strade illuminate. Nel frattempo Bernd si era addormentato e russava sonoramente, non potendo così godersi lo spettacolo.

Arrivati al “Grand Hotel Europa”, la nostra dimora per i successivi giorni, l’autista passò davanti all’entrata principale ed andò a fermarsi dietro l’angolo in una stradina laterale. Io che intuivo il perché di questo, vedendo certi tipi di persone passeggiare avanti e indietro, per spaventare Bernd gli dissi quasi sottovoce «Non è che questo adesso ci fa qualche scherzo» e lo vidi puntualmente impallidire.

«Keine Angst» disse l’autista in perfetto tedesco. «Niente paura! Cerco solo di evitare il contatto con la mafia dei tassisti che mi toglierebbero la metà del ricavato».

Ci spiegò poi di essere stato a Dresda fino al 1989, come agente del KGB in Germania, il cui capo a Dresda era Vladimir Putin.

Gli demmo una lauta mancia e ci avviammo all’entrata con il nostro bagaglio.

Le impiegate alla reception erano giovani e bionde, una si chiamava Natasha, la seconda anche e la terza Natalia.

Natasha 1 ci ritirò i passaporti e ci consegnò le chiavi senza sorridere mentre le altre due parlottavano tra di loro ammiccando verso di noi. Forse affascinate dal nostro aspetto: Bernd alto, pelato e con una vistosa sciarpa rossa. Io piccolo con la barba ed una coppola siciliana.

Assieme alle chiavi delle camere, Natasha ci consegnò un biglietto di Moritz: Vi aspetto al Mezzanine Cafè.

Trovammo Moritz in attesa, sprofondato in un’enorme poltrona, sorseggiando un long drink. E pensare che proprio lui di solito non beve alcol ed essendo il rampollo di una antica dinastia prussiana, è piuttosto propenso, almeno per le apparenze, a gesti e comportamenti compassati.

Ci salutammo con enfasi, come se non ci fossimo visti da anni. Moritz ordinò da bere per noi: Campari con succo d’arancia, che a me proprio non piace... cominciamo bene pensai tra di me. Continuò il suo show illustrando il programma per la serata:

«Adesso attendiamo Volker, così facciamo anche noi conoscenza. Poi noi tre — senza Volker — a cena in un tipico locale sovietico. Dopodiché introduzione alla vita sociale di San Pietroburgo nel locale “Chajka”, il salotto bene della città».

Volker fa il suo ingresso al “Mezzanine Cafè” come se ne fosse il proprietario o per lo meno il capo indiscusso. Quarantenne di bella presenza, getta sguardi inquisitori a destra e a manca. Un personaggio di quelli insomma che mi fa subito insospettire. Per dire: poca sostanza ma molta scena. È di Berlino — molto probabilmente Est — perché parla perfettamente russo.

Volker non abitava in nessun albergo, ma era ospite in un istituto per sordomuti. Diceva di conoscere da tempo il direttore, un certo Igor Ruckoj. L’istituto si trovava nel quartiere di Deviatkino, all’estrema periferia nord della città. Conosciuto anche per essere il capolinea della Linea Nr. 1 del metro.

Ruckoj. Il nome mi suonava sospetto, non certo tipico di San Pietroburgo. Piuttosto familiare nelle Repubbliche euroasiatiche. Ecco: Aleksandr Ruckoj, uno dei capi della Mafia cecena. Quello che durante il golpe fallito contro Gorbaciov era salito su un carro armato dei sovversivi. Un’immagine che aveva fatto il giro del mondo.

Volker ci raccontava in modo rapido e piuttosto monotono di tutti i contatti che aveva a San Pietroburgo e sui vantaggi che ne potevano derivare per eventuali affari. Non accennava però alla vera ragione per la quale era a San Pietroburgo, che però ci spiegherà Moritz più tardi a cena.

Il progetto consisteva nell’acquistare – tramite le conoscenze di Igor – computer da reparti dell’Armata Rossa momentaneamente in disfacimento. Nell’istituto per sordomuti di Deviatkino le parti con i metalli pregiati del computer – il così detto cervello – venivano separate dalla carcassa e trasportati in Svizzera tramite la Siria.

I fondi per acquisire i computer dall’esercito sovietico venivano messi a disposizione da una così detta joint venture russo-svizzera che pagava a Volker e Igor un prezzo pattuito a peso dei vari metalli pregiati.

La nostra cena era stata prenotata da Volker al ristorante “Neva Restaurant”, situato sul Nevskij Prospekt a pochi passi dall’albergo. Un locale enorme, cupo e praticamente vuoto. La cena era a menu fisso composto da diverse portate, vodka, succo di pomodoro e acqua minerale: non era proprio male. Lo spettacolo musicale decisamente più scarso.

Dopo cena, pochi passi sotto il fastidioso nevischio ed eccoci alla “Chajka”, a quel tempo l’unico locale notturno di un certo livello frequentato da un pubblico internazionale, il che vuol dire turisti e uomini d’affari stranieri (di ogni nazionalità) nonché faccendieri e “studentesse” provenienti dalle varie regioni ex-sovietiche.

La “Chajka” fu aperta nel 1989 da un avventuriero di Amburgo, Broder Drews, che non si sa bene con quali aiuti sia riuscito ad ottenere i necessari permessi e “sovvenzioni”. Nel frattempo Broder si era ritirato dalla conduzione operativa del locale, ora compito dei nuovi soci; una coppia omosessuale di Interlaken, nel Cantone di Berna.

Alla “Ciajka” facciamo la conoscenza di Jana — l’amica di Moritz — una studentessa di Dnepropetrovsk, spiaggiata, per così dire, da un paio di anni a San Pietroburgo.

Il locale era strapieno e sembrava che la maggior parte dei clienti si conoscesse, compreso Moritz e soprattutto Volker. Forse per fare un piacere a me, Jana aveva portato un’amica che parlava un poco di italiano. Era alta, magrissima, rideva sempre e molto forte. Però era intelligente perché capì subito di non essere il mio tipo e spostò rapidamente le sue attenzioni su un Olandese, rappresentante di Unilever.

Moritz saltellava tra un gruppetto e l’altro con aria di importanza. Ad un certo punto si avvicinò a me e mi disse tutto agitato:

«Vieni, vieni … c’è un tipo che ti conosce.»

In un angolo, al banco del bar, sedeva un uomo di media statura dall’apparenza sud-europea. Lo riconobbi subito; Joao Pinto, un Portoghese che quando lo conobbi viveva a Londra e lavorava come me nel campo dell’organizzazione di eventi. Adesso era rientrato in Portogallo e a quanto pare non faceva niente di produttivo. Viveva a Carvoeiro, sulla costa, e di tanto in tanto faceva un giretto all’estero.

Questa volta era di turno la Russia, dove era già stato prima. Voleva proseguire per Mosca, dove diceva di avere una fidanzata e il mercoledì successivo assistere alla partita di Coppa dei Campioni fra il Benfica ed il CSKA:

Era appena arrivato anche lui e, come noi, abitava al “Grand Hotel Europe”. Era alla “Chajka” da circa un’ora, dove aveva mangiato un bockwurst (würstel tipico di Amburgo) con insalata di patate e fatto la conoscenza di un giovane Siriano, appena arrivato a San Pietroburgo per seguire un progetto di integrazione per disabili, patrocinato da una fondazione svizzera.

Ecco nuovamente il mio “amico” arabo del volo Aeroflot.

Poco dopo di noi arrivò anche Igor Ruckoj. Era proprio come me lo immaginavo. Insomma lo specchio dell’uomo medio russo di quel periodo:

Malvestito, spettinato e, per di più, grasso e sudaticcio. Dovetti stringergli la mano sudata e accennare ad un sorriso, niente di più, anche perché non parlava neanche una parola di una qualsiasi lingua straniera.

Verso le undici, Volker suona l’adunata, ha già anche organizzato i taxi. Nel nord di San Pietroburgo ha aperto i battenti una nuova discoteca. Del drappello facevano parte Moritz e Jana, Bernd, io, Joao Pinto e l’Olandese di Unilever (che aveva scaricato la magra donzella) e naturalmente Volker e Igor.

Il locale non era male: ambiente moderno e piacevole, pubblico giovane e simpatico, ottima musica non troppo assordante e drink a prezzi modici.

Verso le due di notte, Bernd ed io, spossati da tutti gli avvenimenti del giorno, decidemmo di rientrare in albergo. Volker ci ordinò un taxi e ci chiese il favore di dare un passaggio a Igor fino all’istituto, che non si trovava distante. È chiaro che acconsentimmo. Con un po’ di furbizia riuscii ad accaparrarmi il posto vicino all’autista, mentre Bernd finì sul sedile posteriore di mezzo fra Igor ed una frequentatrice della discoteca che gli aveva chiesto un passaggio per il centro. Arrivati all’istituto, Igor scese e finì subito a gambe all’aria scivolando sul marciapiede ghiacciato. Nessuno se ne preoccupò, né il tassista, né io e tantomeno Bernd, impegnato ad imparare il Russo con il metodo “a contatto”.

I due giorni che seguirono furono un misto di cultura e divertimento ben orchestrato da Volker, sui suggerimenti di Moritz. Il concerto al monastero, le visite obbligate all’Hermitage e alla Cattedrale di St. Isacco, nonché alla fortezza di Pietro e Paolo. Ma anche la cena al Ristorante kasako e la serata al “Nevskij Melody” — un incrocio tra ristorante e discoteca — dove un conoscente svedese di Jana fungeva da chef.

Per quanto riguarda i piani di un futuro business, molto “caldeggiati” da Moritz non ebbi la possibilità di sottrarmi ad un incontro. In qualche modo, e da qualcuno, Moritz ebbe il contatto di Natasha (in realtà Natalja Varelejeva) che aveva già esperienza nel nostro campo di affari.

L’incontro si svolse in un’ottima atmosfera. Natasha si presentava sicura, professionale e abbastanza competente, se si considera la quasi totale mancanza di esperienza internazionale. Al momento era la rappresentante a San Pietroburgo di un’azienda russa del settore con sede a Mosca.

Parlammo abbastanza dettagliatamente dell’eventuale futuro progetto e ci aggiornammo ai primi mesi dell’anno a venire per prendere una decisione definitiva.

Il giorno della partenza (di Bernd e mia, e per caso anche di Joao Pinto) ci ritrovammo tutti, dopo la sontuosa colazione a buffet, al “Lobby-Bar” per un’ultima chiacchierata. Ed ecco qui l’ultima sorpresa di Volker: arrivò con un Russo – a sua detta un ammiraglio – accompagnato da una pallida giovane donna — a detta di Volker — la nipote dell’ammiraglio.

Volker venne subito al dunque ed allargò su un tavolo dei piani di costruzione di un qualcosa che doveva essere un battello. L’ammiraglio disse — tradotto da Volker — che si trattava di un rompighiaccio della marina Sovietica da adattare a locazione per eventi VIP.

Dall’altra parte del tavolo Bernd mi fissava ininterrottamente e scuoteva leggermente il capo. Nel frattempo la nipote aveva estratto da una busta dei fogli con liste di oggetti che sembravano utensili da cucina. Io presi uno dei fogli in una mano e con l’altra Jana sottobraccio e mi appartai con lei brevemente. Le chiesi di che cosa si trattava e lei — quasi scoppiando a ridere — mi disse che erano listini prezzi di utensili per uno studio dentistico.

Misi il tutto nella busta marrone assieme ai piani del battello. Prima di prendere il suo taxi, Joao Pinto mi consegnò un biglietto da visita del giovane siriano, dicendomi che si era permesso di dargli i miei contatti. Cosa che in effetti non ho molto gradito.

Prima di partire dall’albergo consegnai alla reception la busta marrone con la scritta: x Mr. Moritz.

Ed eccomi, assieme a Bernd, sulla via del ritorno.

Ci vorrà un po’ di tempo per mettere in ordine tutti i pensieri relativi a questa esperienza.

Con il nuovo anno il progetto di aprire un’attività a San Pietroburgo si concretizzò, così Moritz ebbe modo di recarsi nella città russa piuttosto frequentemente per organizzare la parte logistica e legale.

Dopo uno di questi viaggi mi raccontò di aver incontrato Volker ancora sotto shock per il fatto che suo figlio, poche settimane prima, era morto investito da un’auto sul Nevskij Prospekt. L’automobilista non aveva rispettato il semaforo rosso a un passaggio pedonale. Fino ad ora non era ancora stato rintracciato.

Nei mesi a seguire cominciai a recarmi regolarmente a San Pietroburgo, dato che gli affari promettevano veramente bene. Con l’aiuto di Sergeij ottenni un visto annuale, dato che ero ufficialmente presidente di una società registrata in Russia, il che mi facilitava enormemente nei miei movimenti, anche per Mosca. Moritz invece da un giorno all’altro smise di andare a San Pietroburgo, dato che Jana, stanca di aspettare una decisione sul loro futuro, si era sposata con il cuoco svedese del “Nevskij Melody” e trasferita con lui a Stoccolma.

Circa due anni dopo l’inizio della mia avventura russa, all’arrivo all’aeroporto venni accolto inaspettatamente da Natasha, invece che, come al solito ormai, da uno dei nostri autisti. Aveva l’aspetto molto teso. Le dissi:

«Natasha, che sorpresa!»

Lei mi sussurrò:

«Vadim è stato arrestato due giorni fa. Vieni, andiamo, ti racconterò tutto in ufficio. Non voglio farlo in presenza dell’autista.»

Natasha aveva preso l’abitudine di organizzare ogni tanto — durante le mie visite — degli incontri con alcuni suoi amici e conoscenti. Venni così a conoscere alcuni personaggi davvero interessanti come ad esempio Sergeij, un signore molto compito e sempre ben vestito, pettinato e gentile, che parla bene l’inglese. Conobbi anche tre giovani avvocati, ex commilitoni di università di Natasha, che stavano facendo carriera con uno studio privato. Uno di loro, Dmitrij Medvedev, qualche anno dopo diventerà Primo ministro sotto la presidenza di Vladimir Putin. Inoltre feci la conoscenza di Tatjana, insegnante di danza classica della famosa scuola di Natalija Makarowa e naturalmente di Vadim, a cui Natasha era legata da un’amicizia antica. Un personaggio mitico. Alto, di presenza imponente, con una barba lunga ma ben curata e due occhi come due laser. Vadim era ingegnere navale, ma gli imprevisti della vita lo avevano portato a dover svolgere un lavoro molto modesto: guardiano di una chiusa lungo il fiume Okhta, un piccolo, ma navigabile affluente del Neva.

Prima di arrivare in ufficio, Natasha mi disse che ci sarebbe stato anche Sergeij che, secondo quanto avevo potuto constatare nel giro degli anni, era un po’ come il consigliori di Natasha ed anche il suo angelo custode. Non mi era stato mai detto esplicitamente che cosa facesse in effetti, ma ormai per me era chiaro e sicuro al 100% che era un agente dei servizi segreti russi, prima chiamati KGB.

Appena arrivati in ufficio, salutai brevemente le collaboratrici, anche loro abbastanza scosse per il fatto di Vadim. Noi tre ci appartammo poi nell’ufficio di Natasha che ci raccontò minuziosamente ciò che si sapeva dell’accaduto, secondo il rapporto della polizia.

Nel tardo pomeriggio del 27 novembre alle ore 17, Igor si trovava sull’argine del fiume nei pressi del ponte pedonale di Deviatkino, che affianca la chiusa, dalla parte opposta di dove si trova l’Istituto. Qui veniva colpito alla nuca e spinto nel fiume.

Il posto dell’accaduto si trovava esattamente fra l’inizio del ponte e la cabina dei guardiani della chiusa, dove quel giorno, a quell’ora, si doveva trovare Vadim perché era di servizio. Dalla cabina però non avrebbe potuto essere testimone oculare del fatto, dato che essa non aveva finestre da quella parte. Le accuse della polizia a Vadim erano piuttosto deboli perché si basavano su due testimonianze non molto precise: una del proprietario di un chiosco a fianco della stazione della metropolitana, nelle vicinanze del ponte, che aveva visto Igor e Vadim conversare molto agitatamente tra di loro prima delle 17 e poi allontanarsi imprecando in diverse direzioni. L’altra testimone — un’anziana signora che si trovava sul ponte a circa 50 metri dall’accaduto — diceva di aver visto un uomo alto e magro colpire Igor da dietro e spingerlo nel fiume, per poi allontanarsi passando dietro alla cabina dei guardiani.

Il fatto che sul luogo del delitto furono accertate le impronte delle scarpe di Vadim, insieme a molte altre, non era un’aggravante vera e propria, dato che anche lui fu tra uno dei primi ad arrivare sul luogo pochi minuti dopo l’accaduto, proveniente dalla stazione della metropolitana. Il pezzo di legno usato per colpire Igor fu preso da una catasta appoggiata al muro della cabina. Sul legno furono riscontrate le impronte digitali di Vadim che si difende dicendo di aver accatastato la legna due giorni prima. La Morte di Igor fu provocata dal forte colpo alla nuca.

Vadim afferma inoltre di aver litigato con Igor per una schedina del totocalcio — a cui giocavano in società con altri conoscenti — non compilata a dovere. Il punto di incontro del gruppetto era il chiosco vicino alla stazione.

Rimanemmo ancora più di un’ora a discutere. Natasha disse di aver già ingaggiato uno dei giovani avvocati che anch’io conoscevo, come difensore. Io feci allora la proposta di chiudere la discussione e di ritrovarci il giorno dopo, magari anche con l’avvocato. Alexander mi portò in albergo — per caso di nuovo il “Grand Hotel Europe” — e dopo essermi sistemato decisi di andare alla “Chajka”, per mangiare qualcosa e pensare in pace.

Presi posto ad un tavolo un po’ appartato e ordinai — tanto per cambiare — aringa marinata con pane nero e salsa della Massaia. il tutto annaffiato da una birra Holsten alla spina.

Tirai fuori gli appunti e cominciai ad ordinare le idee. Era chiaro per me che l’omicidio aveva a che fare con le attività dell’Istituto per sordomuti guidato da Igor. In questo contesto avevamo già un morto: il figlio di Volker ucciso in una situazione a dir poco rocambolesca. Poi la successiva uscita di scena di Volker, di cui si erano perse le tracce. Poco dopo la mia prima visita a San Pietroburgo, Moritz mi diede (involontariamente) modo di capire che il trasporto del metallo dall’Istituto alla ditta in Svizzera, nonché il pagamento (in contanti) a Igor e Volker era compito di una ditta di trasporti di Riga che non godeva di buona fama, anche se registrata come joint-venture svizzero-lettone.

Pensando alla dinamica dell’accaduto, constatai che Vadim arrivò sul luogo assieme ad altri che venivano dalla direzione della metropolitana, quindi non da solo e non dalla parte della cabina dove, secondo l’accusa si era ritirato dopo aver consumato l’omicidio.

Rimaneva il giovane Siriano del mio primo viaggio. Ricordai allora che a suo tempo avevo aggiunto il suo contatto — datomi da Joao Pinto — alla lista che portavo sempre con me nella mia mappa. Provai subito a chiamare il numero (rete svizzera). Dopo un po’ mi rispose una voce femminile in uno svizzero-tedesco piuttosto approssimativo. Sembrava piuttosto scocciata e alla mia domanda se potevo parlare con Aslan, chiese qualcosa in russo a qualcun altro e mi disse poi che si trovava ancora a San Pietroburgo.

Mi feci coraggio e chiesi al barista che conoscevo da anni se sapeva darmi notizie di Aslan. Lui non mi rispose, mi guardò un attimo ancora poi si voltò.

Rimasi un poco a pensare e poi decisi di agire senza perdere tempo. Chiamai Natasha per farmi dare il numero di Sergeij. Lei disse di non poterlo fare ma che avrebbe chiesto a Sergeij di chiamarmi, però prima voleva sapere perché. Le spiegai vagamente che mi ero convinto che la vicenda di Vadim avesse in qualche modo a che fare con la Svizzera e che forse lui aveva qualche contatto da poter sfruttare.

Nell’attesa mi guardai un po’ intorno. Come era cambiato l’ambiente! La clientela non era più così variopinta e frizzante. Molti asiatici, qualche tedesco nostalgico ed alcuni cafoni russi di serie B con compagnia decisamente scadente.

Pagai il conto e notai che il barista vi aveva scritto sopra qualcosa in inglese: È partito stamattina per Riga.

Tornai in albergo, sempre in attesa di una chiamata di Sergeij. Si fece vivo solo verso mezzanotte. Prima che potessi spiegargli la ragione per cui lo avevo contattato, lui mi disse brevemente:

«Natasha mi ha spiegato ed io ho fatto ricerche. Ci troviamo domani alle 15 nella “Suisse House” con un conoscente. Ho pregato Natasha di non far venire Anatoli (l’avvocato)».

Il giorno dopo, puntualissimi, ci trovavamo seduti alla “Berner Stube” del “Suisse House”, un palazzo storico con cortile interno dove si trovano anche un piccolo albergo, un business center nonché il consolato svizzero.

Un signore molto elegante entrò nella Stube e venne verso di noi. Si presentò come Beat Öttli, addetto agli “affari regionali” del consolato. Si accomodò al nostro tavolo e cominciò a parlare in tedesco in direzione di Natasha e di me, praticamente ignorando Sergeij. Mi meravigliai che questi non diede alcun segno di disappunto, nonostante fosse un tipo piuttosto permaloso.

«Mi occupo di questa faccenda, perché c’è una entità svizzera coinvolta. Ho fatto alcuni accertamenti e parlato con l’ufficio per affari esteri del Cantone dove risiede l’azienda. Ho anche parlato con i vertici della Municipalità». Così il racconto di Beat Öttli, che fece und pausa riflessiva, poi continuò: «Ci sono novità. Questa mattina un certo Dima Goldstein si è presentato alla polizia per testimoniare di avere visto Vadim sulla metropolitana, salito come lui a Deviatkino e sceso alla fermata successiva. Dima Goldstein aveva proseguito per Ploshad Lenina, per prendere il battello per Petrovorets, dove era andato a trovare un amico. Insieme erano andati due giorni a pescare sul golfo di Finlandia».

Beat Öttli disse ancora che Dima aveva saputo dell’accaduto soltanto durante il ritorno a casa, leggendo il giornale. La polizia credeva al racconto del testimone e che in serata o al più tardi l’indomani mattina Vadim sarebbe stato scarcerato. Un grande sospiro di sollievo da parte di tutti e la decisione unanime di brindare al fatto.

Parlammo ancora un po’ del più e del meno e Beat mi chiese se conoscevo la Svizzera.

«Certo» – risposi – «ci sono stato molte volte per lavoro e quando vado in Italia in auto, almeno una o due volte all’anno, passo sempre dalla Svizzera facendo la rotta Chiasso-San Bernardino-Lindau.»

Uscendo dal locale, Beat mi prese brevemente da parte e mi disse in italiano:

«Aslan Redani (il giovane siriano) è rientrato ieri a Zurigo, dove è stato trasferito. Ora si occupa dei rapporti con l’Est della Russia.»

Dovetti prolungare il mio soggiorno per poter partecipare alla festa per il rilascio di Vadim. Tutto fu organizzato in ufficio in serata. Le ragazze prepararono una cena con menù russo: tante diverse pietanze con acqua minerale, vodka e succo di pomodoro. Valentina portò dei blini fatti in casa ed io ero incaricato di comprare il caviale. Cosa che feci molto volentieri, dato che mi divertivo ad andare al mercato del rione, così potevo anche comperare il caviale che più mi piaceva: il Sevruga.

Sergeij, come sempre, si occupò delle bevande in modo da poter comprare anche una bottiglia di Akhtamar, un brandy armeno che a lui piaceva molto.

La festa scorreva allegra e chiassosa. Vadim passava da un brindisi all’altro. Sergeij, Alexander ed io discutevamo sulla domanda: chi era in effetti l’assassino?

Sergeij non credeva, come invece dicevo io, che fosse stato Aslan Redani, mentre Alexander era dell’idea, nonostante l’amicizia, che Vadim era l’autore del delitto e che la testimonianza di Dima Goldstein era una montatura di chi sa chi. Sergeij era sconcertato da questa idea e stava quasi per venire alle mani con lui.

Tornai ad Amburgo il giorno dopo e cominciai a pensare seriamente di ritirarmi dall’impegno in Russia anche perché gli affari non erano più così rosei come un tempo e per dire la verità piano piano dovevo ammettere che cominciavo ad invecchiare e non era più tempo di trascorrere la vita sulla corsia di sorpasso.

Alcuni mesi dopo, Vadim fu assolto definitivamente dall’accusa di omicidio. Il giudice aveva considerato credibile al cento per cento la testimonianza di Dima Goldstein anche per la sua posizione sociale in città. Era il presidente dell’associazione russa degli scrittori ebrei e membro del consiglio europeo della stessa associazione con sede a Ginevra.

Durante le mie visite successive a San Pietroburgo incontrai qualche volta Vadim. Evitammo di parlare del “fatto” (parlare per modo di dire, considerando la barriera della lingua).

Poco prima che mi ritirassi dagli affari in Russia, ricevetti un messaggio da Sergeij. Mi diceva di essersi trasferito definitivamente a Londra (il suo sogno per tanti anni) ma di non aver ancora informato nessuno per non compromettere la riuscita del trasloco. Mi invitava di andare a trovarlo la prossima volta che fossi stato a Londra.

Ne parlai poco dopo con Natasha che andò su tutte le furie per non essere stata informata. E cominciò la girandola di pettegolezzi e cattiverie. Alexander diceva che non era vero e che Sergeij si era rifugiato in un convento di Novgorod. Tatjana, che era sempre ben informata, disse che nel “Literary Cafè” si sussurrava che viveva in un sobborgo di Londra, in una casetta nel parco di un castello di proprietà di Boris Abramowitsh Beresowski, là dove due mesi prima era stato avvelenato l’agente segreto Alexander Litwinenko. L’unico che non commentò esplicitamente il fatto fu Vadim.

Vadim aveva perso il posto di guardiano della chiusa di Deviatkino perché aveva abbandonato il posto di controllo per andare a giocare la schedina del totocalcio alla stazione della metropolitana successiva a quella di Deviatkino. Tramite le conoscenze di Tatjana aveva ora un posto come guardiano notturno dello zoo cittadino.

Durante questa visita, conclusi il processo di vendita delle mie quote dell’azienda russa. Fu anche, fino ad oggi, la mia ultima visita a San Pietroburgo.

Nei mesi successivi ebbi modo di godermi un po’ più di tranquillità, anche se, devo ammettere, San Pietroburgo mi mancava un po’.

Un giorno, all’improvviso, ricevetti una e-mail di Volker. Al mio indirizzo privato, non a quello dell’ufficio e poi proprio da Volker che era il “personaggio” russo con cui avevo avuto a che fare di meno.


Caro amico, ti meraviglierai che io ti contatti, ma dopo che ci siamo conosciuti molti anni fa, me ne sono successe di tutti colori. La morte di mio figlio mi ha buttato un po’ fuori carreggiata. Anche il sapere che alla guida dell’auto che lo ha investito si trovava Aslan Redani, in fondo un nostro amico. Non mi sono più fidato di nessuno. Neanche di Igor e sono finito nelle mani di un gruppo mafioso. Per fortuna ero riuscito a metter da parte, nella cassetta di sicurezza di una banca svizzera, la mia parte dei guadagni. Non posso però ritirarli perché mi trovo nel penitenziario di Omsk in Siberia dove sto scontando una lunga pena per truffa. Ho un amico fidatissimo a cui ho confidato il codice per poter ritirare i soldi dalla banca. Lui però non può portarli fuori dalla Svizzera. Così ho pensato a te.


Scriveva poi che loro sapevano che stavo per partire per l’Italia e che sarei ritornato intorno a metà gennaio. Mi “chiese” senza mezzi termini di rientrare il giorno 14 e fermarmi verso le ore 14 al chiosco del distributore, all’uscita del San Bernardino. Lì avrei ricevuto ulteriori istruzioni.

Certo, avrai una lauta ricompensa. Così terminava il messaggio.

Certo conoscevo quel posto. Ad ogni passaggio ci fermavamo per fare una bella passeggiata nel bosco con Franz, il nostro boxer. E così il 14 gennaio, puntuali, ci fermammo all’uscita del San Bernardino. La passeggiata questa volta fu molto più corta, sia perché nevicava, sia per il fatto che eravamo molto curiosi. Dopo aver fatto il pieno, il cassiere, insieme alla ricevuta, mi consegnò un biglietto su cui stava scritto: Fermatevi al Bistro dell’area di servizio di Via Mala. Già il nome mi era sospetto … sulla cattiva strada!

Comunque sia ci fermammo e all’entrata del Bistro un’addetta ci fermò dicendoci che il cane non poteva entrare senza essere registrato e che poi avrebbe ricevuto un pass come cane di soccorso della zona di Via Mala. Non costava niente e così in quattro e quattro otto, Franz diventò un cane “importante”. Lo aveva capito e si mostrava tutto orgoglioso.

Ci sedemmo per bere qualcosa e poco dopo arrivò un uomo in divisa che ci consegnò un borsone ed una piccola busta. Il borsone di color rosso con una croce bianca portava una vistosa scritta: Via Mala Rettungshund (Cane di salvataggio della Via Mala) ed in un angolo un’etichetta con il nome Franz! Franz, che immaginava che dentro ci fosse qualcosa per lui, non stava più nella pelle, ma dovette pazientare perché sul biglietto dentro la busta c’era scritto: Non aprire prima di essere in Germania, e poi Abbiamo prenotato una camera per questa notte all’Hotel Seeblick di Lindau.

Partimmo in tutta fretta. Franz, come di consueto nel suo posto nel fondo continuava a fare contorsioni per riuscire ad annusare il borsone sul sedile posteriore. Per fortuna non ci furono rallentamenti ed eccoci alla reception dell’“Hotel Seeblick”. La signora ci diede il benvenuto e ci consegnò le chiavi. Franz continuava a guardare verso la scala, come dire “Presto, sbrighiamoci!”.

Arrivati in camera, abbandonammo il bagaglio in un angolo ed aprimmo il borsone.

C’era una mantellina per Franz con la scritta Via Mala. Un collarino con la borraccia di salvezza, diverse confezioni di biscottini ed altre delizie canine, nonché due buste. Una grande con la scritta Volker, l’altra, più piccola con su scritto il mio nome. La aprimmo subito e in un primo momento quasi sussultammo di gioia.

Un bel mucchietto di mazzette con banconote da 100 euro. Io e mia moglie ci guardammo increduli ma fiduciosi.

Quasi automaticamente aprii una mazzetta. Le banconote erano false, ma non solo. Erano stampate solo da una parte. Una bella presa per il sedere. Aprii furioso la busta di Volker. Era piana di giornali, vecchie edizioni della “Pravda”.

La delusione era grande — a parte che per Franz — che stava assaggiando i diversi tipi di crocchette ecc.

Nel trambusto non avevamo notato due cose: sul lungolago c’era un viavai di persone, auto della polizia e ambulanze. Ma più importante per noi, un foglio scritto a macchina che era uscito dalla busta con i soldi falsi. Era scritto in inglese e diceva:


Mio carissimo amico è molto tempo che non ci siamo più visti o parlati, e questo mi dispiace veramente.


Capii subito che si trattava di Sergeij.


Ho comunque saputo che stai bene di salute e che con la cessione della ditta in Russia hai fatto un buon affare. Io pure sto bene, anche se la vita a Londra non è per niente facile e soprattutto molto costosa. Per trovare qualche prodotto russo devo andare in centro, in negozi carissimi. Il mio amato brandy armeno lo devo far venire per corriere da Sankt Peterburg.

Penso comunque che sia ora di darti alcune delucidazioni. Fin da quando ci siamo conosciuti, mi sono interessato del progetto di Igor e Volker, e così mi sono fatto amico con Igor. Mi raccontò che avevano deciso di accumulare gli utili, al netto delle spese di gestione, su un conto bancario di Zurigo, a cui si poteva accedere solo con tre diversi codici da presentare contemporaneamente. Uno dei codici era in possesso di Igor, un altro di Volker ed il terzo del Direttore della ditta Svizzero russa “Metallist Intellekt”. Volevano inoltre attendere che si accumulasse una certa somma prima di cominciare a ritirare denaro.

Proposi a Igor di divenire suo socio e poi mettere fuorigioco gli altri due. In un primo momento sembrava d’accordo, ma poi si perse di coraggio e non ne volle più sapere.

Una sera alla “Stube” del “Suisse Haus”, in un giro di amici ed ex colleghi, tra cui Dima Goldstein e Beat Öttli studiammo un piano che poi avrebbe funzionato alla perfezione. Aslan Redani aveva una funzione di secondo piano: corriere e all’occorrenza sicario. Fu lui che uccise (per sbaglio) il figlio di Volker credendo che fosse il padre per rubargli il codice. Ci pensarono più tardi i miei amici siberiani durante un suo soggiorno a Omsk. Ma non è morto. Vive tuttora in Siberia con una vecchia signora danarosa. Il messaggio a te non lo ha scritto lui ma la mia nuova segretaria Natasha, che sa molto bene il tedesco.

Aslan si occupò di Igor e per non farlo cadere in qualche trappola giudiziaria organizzammo la temporanea accusa a Vadim, per poi discolparlo dopo che Aslan era al sicuro. Ottenere il terzo codice è stata una cosa abbastanza facile e senza versamento di sangue: dall’inizio di quest’anno Beat Öttli è il nuovo direttore della “Metallist Intellekt”.

Ti chiederai ora dove si trovano i soldi. Sono in una borsa sul sedile di fianco a me su un’autostrada del Sud della Germania. Il pacco era stato fissato dall’esterno al fondo della tua auto durante il vostro stop all’area di Via Mala. Aslan lo ha prelevato quando eravate in albergo al Seeblick e depositato nella mia auto al parcheggio del distributore vicino all’hotel. Ora userò una parte del malloppo per aprire un negozio di specialità sovietiche nel sobborgo di Londra dove abito.

Ti sarai accorto del trambusto sul lungolago. Avranno appena pescato dal lago il cadavere di un giovane dall’aspetto arabo. Diranno che è inciampato ed ha picchiato con la fronte sul parapetto prima di cadere in acqua. So long...


Con mia moglie decidemmo di farci un bel piatto di selvaggina — ottima da quelle parti — ed una bottiglia di Rosso del Baden. Non lasciammo Franz da solo in camera per non dover andare dal veterinario il giorno dopo.

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Paolo Bianco:
I cervelli di Deviatkino.

29 pages; €9,50
Grupo Albatros Il Filo, Rome; 2016.
ISBN 978-88-567-7721-5


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